La sfilata storica della Bigorda e del Niballo, con i numerosi figuranti che indossano splendidi costumi, ci raccontano una Faenza rinascimentale fatta di “dame e cavalieri, armigeri e balestri”, per richiamare le parole dell’araldo del Palio. Tuttavia bisogna riconoscere che ai tempi della signoria dei Manfredi soltanto una piccola frazione della popolazione abitava in città (con tutta probabilità neanche 5.000 persone), ed erano nel complesso ancora meno coloro che si potevano permettere un tessuto di velluto damascato ornato di pelliccia. Allora, cosa voleva dire vivere da popolani in campagna verso la fine del Quattrocento?
Mezzadri o fideles, lavorando la terra d’altri
Innanzitutto, se foste vissuti nel contado faentino, potevate appartenere ad una delle seguenti classi sociali. Nel caso più fortunato avreste fatto parte della classe degli affittuari, i contadini che pagavano al proprietario del podere una tassa annuale, più una al rinnovo dell’affitto, dopo un certo lasso di tempo. In condizione leggermente peggiore troviamo gli uomini che detenevano la terra con la spartizione dei prodotti, presentandone una parte dei suoi frutti al signore. Le ordinanze dei Comuni romagnoli stabilivano più o meno che un contadino dovesse dare metà del prodotto agricolo al padrone, da cui il termine mezzadri. Sia ben chiaro, un mezzadro non può trebbiare o vendemmiare senza il consenso del signore, e se non fertilizzavano o lavoravano malamente, spesso dovevano risarcire il padrone per la mancata produzione.
Un gradino più sotto abbiamo poi i fideles, la servitù che, pur non essendo vincolata strettamente ad un pezzo di terra, giurava “fidelitatem, servitutem ed vassallaticum” ad un signore locale. I tipici obblighi feudali prevedevano il pagamento di imposte in denaro o in natura, l’assoggettamento alla giustizia decretata dal vassallo e l’assolvimento di obblighi militari. Questa forma di vassallaggio era ancora presente nel Quattrocento soprattutto in collina, dove il dovere di prestare in armi per il signore rappresentava una formidabile risorsa politica e militare: proprio i valligiani del Lamone, i temibili “brisighelli”, giunsero più volte in soccorso ai Manfredi. Infine, i più miserevoli fra i lavoratori della terra erano i braccianti, i prestatori di opere giornaliere, spesso a base stagionale: falciatori, mietitori di grano, trebbiatori. Gli statuti di Faenza prevedevano un salario massimo e stabilivano inoltre che i braccianti che vivevano in città andassero direttamente al lavoro all’alba, per tornare poi alla chiusura delle porte cittadine.
La dura vita nei campi
Indipendentemente dal rapporto che legava il lavoratore al proprietario della terra, fosse egli un importante signore della città, un castellano oppure un vescovo o un abate, la vita di un contadino e della sua famiglia era scandita dal ritmo delle coltivazioni. Durante l’inverno, che iniziava attorno al periodo di San Martino, il contadino usciva dalla sua casa col tetto di paglia per scavare i canali di drenaggio dei campi e dei boschi, spidocchiare gli ulivi, potare gli alberi per farne legna da ardere, riparare i carri e gli attrezzi da lavoro. A primavera, con la rinascita delle piante, si potavano e si piantavano le viti, si sfalciavano i prati, si tosavano le pecore, si seminava il grano marzolino, il lino, le fave, il miglio. In estate veniva il momento vero della produzione agricola, e la giornata lavorativa si allungava: si mieteva il grano, si accatastavano i covoni e si tagliavano il lino e la canapa. In autunno, dopo aver estirpato le radici del grano, si arava e si fertilizzava, si trebbiava il grano nelle aie per ricavare i chicchi, si vendemmiava e si raccoglievano i frutti e le olive. Chi ne aveva possibilità recuperava il miele dagli alveari e raccoglieva le castagne. Insomma, non si stava mai con le mani in mano.
La campagna, fonte della ricchezza cittadina
Malgrado le condizioni di vita e di lavoro dei contadini non fossero delle migliori, era proprio la produzione agricola che rappresentava il maggior valore del contado faentino. Se le piane di Romagna sono definite “ubertose” (molto produttive) dal banditore del Palio, nelle fonti del Trecento e del Quattrocento troviamo conferma di queste parole: il lino (prodotto a Faenza sin dal periodo romano), la vite (il Moscatello, il Famoso-Uva Rambela, il Centesimino e soprattutto l’Albana bianco erano già noti e apprezzati), le fave, il miglio, l’orzo, la spelta (una varietà di farro) e il frumento erano coltivati assai abbondantemente. In particolare proprio il grano rappresentava un punto di forza di Faenza, e nel 1504 se ne producevano 130.000 staia, circa 80.000 sacchi, di cui più della metà destinati all’esportazione verso Bologna e Firenze.
Le prime colline non erano da meno, con ancora filari di vite, fichi ed olivi, anche se di certo non erano così numerose come oggi le succose pesche romagnole, e a maggior ragione non si poteva incontrare neanche un kiwi.
Più su, verso gli Appennini, la produttività del terreno cala drasticamente, dal momento in cui le montagne erano compattamente rivestite di querce, faggi e castagni. A fianco a qualche cereale più resistente, in questi luoghi trovavamo nutriti greggi di pecore, ed anche le castagne, già ricordate in precedenza, rappresentavano una fonte di sostentamento importante. Con la consapevolezza però che ogni capriccio della natura – una carestia, una gelata, l’esondazione di un fiume – rappresentavano una vera minaccia per il benessere del contadino. Anche per questo erano abbondanti le superstizioni volte al favorire il raccolto e garantire la procreazione, particolarmente diffuse nei mesi di marzo e novembre, periodi di transizione.
Andrea Piazza
Per saperne di più: Signorie di Romagna, di John Larner