Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a’ grandi e sanza iniuria d’altri, ma sí bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso. Preterea, del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per essere troppi; de’ grandi si può assicurare, per essere pochi. El peggio che possa aspettare uno principe dal populo inimico, è lo essere abbandonato da lui; ma da’ grandi, inimici, non solo debbe temere di essere abbandonato, ma etiam che loro li venghino contro; perché, sendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzono sempre tempo per salvarsi, e cercono gradi con quelli che sperano che vinca. È necessitato ancora el principe vivere sempre con quello medesimo populo; ma può ben fare sanza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dí, e tòrre e dare, a sua posta, reputazione loro.

Queste sono le parole di Niccolò Machiavelli, scritte nel capitolo IX del suo caposaldo “Il Principe”. In queste parole vediamo l’importanza che ha il popolo all’interno del “principato civile”, cioè in quella forma di governo che la storiografia moderna ha definito signoria in cui generalmente una famiglia esercitava il potere. È questo il caso di Faenza? A leggere i fatti del 1477 sembrerebbe di sì. Ma in realtà un altro dato è significativo per sapere qual è stato il ruolo del popolo nell’ascesa della gens manfreda.

Cosa intendiamo quando parliamo di popolo nel Medioevo?

Riportano i nostri cronisti che nel 1313, quando cioè Francesco I Manfredi assunse il potere come capitano, egli si presentò per la difesa del popolo (“pro defensione populi”): i Manfredi, infatti, riprendevano il potere dopo i travagliati anni delle lotte di parte che avevano visto emergere quel terzo potere (il popolo, appunto), oltre ai nobili e alla chiesa, incarnato nell’autorità del podestà.

Ma cosa intendiamo per popolo? Dobbiamo anzitutto fare una distinzione fra popolo grasso e popolo minuto: il primo era composto da molta parte di quelle figure che ancora oggi vediamo nei cortei del nostro Palio, ovvero grandi possidenti, capi di importanti corporazioni artigiane, in sostanza tutta quella parte della società che “valeva” e contava; il popolo minuto, invece, raccoglieva coloro che più subivano le imposizioni delle imposte, poiché rispetto alle altre classi non potevano vantare privilegi ed esenzioni.

Il ruolo del popolo minuto diventa allora fondamentale in un governo che poggia sul consenso di questa.

Solo il popolo minuto restò a contrastare il dominio dei Manfredi

Nel secolo e mezzo che separa l’ascesa al potere di Francesco con i fatti del 1477 si assiste, lentamente, allo svuotamento dei vari contropoteri che si potevano opporre alla signoria (il Consiglio degli Anziani diviene un organo meramente rappresentativo, il podestà è quasi sempre chiamato vicino o amico della famiglia Manfredi). Rimanevano, a opporsi, la Chiesa locale e il popolo. Ma nel giro di tre anni tutto cambiò: nel 1468, alla morte di Astorgio II Manfredi, salì al palazzo della Signoria il figlio maggiore Carlo. A lui, secondo disposizioni testamentarie del padre, dovevano succedere in ordine Galeotto e Lancillotto. Per il secondogenito, Federico, era invece segnata un’altra strada: egli infatti era proiettato alla carriera ecclesiastica, tanto che nel 1471 – dopo un primo tentativo sfumato già nel decennio precedente – fu elevato al soglio vescovile.

Questa combinazione particolare aveva portato la famiglia Manfredi al controllo quasi totale della città: solo il popolo, simbolicamente rappresentato nella piazza, restava fuori dal dominio signorile.

La lotta per la successione a Carlo Manfredi: Galeotto vs. Federico

Il 25 settembre 1476, complice una grave malattia di Carlo (le fonti narrano addirittura fosse in fin di vita, e si susseguissero le notizie della sua morte per i paesi vicini), Federico fece venire da Roma il cardinal Francesco Salviati con uno scopo ben preciso, interrompere la disposizione testamentaria che vedeva Galeotto e Lancillotto succedere Carlo e dare l’avvallo papale alla nuova successione: alla morte del Carlo il governo di Faenza sarebbe spettato al figlio di questi, Ottaviano.

Il fatto che di persè mise in allarme le cancellerie dei potentati vicini (Ferrara inviò alcune truppe, come narrano le cronache di quella città, a Lugo pronti ad intervenire in favore dell’asse Carlo-Federico), e fece muovere Galeotto che da Ravenna, si portò vicino a Faenza e il 18 ottobre 1477 riuscì a introdursi nella rocca di Granarolo con un sotterfugio. Riunitosi con Lancilotto, i due proseguirono per Brisighella, dove presero la città ma non la Rocca. Federico, radunate le armi di Carlo, riconquistò palmo per palmo i territori persi nella Vallata, e il 22 ottobre sconfisse i due a Baccagnano e li respinse a Granarolo.

Nel novembre 1477 viene alzato il prezzo del grano: il popolo si ribella

Ma ecco che nelle vicende famigliari si inserì un terzo incomodo. Infatti il 13 novembre 1477 si riunì il consiglio generale per decidere un prezzo calmierato per il grano, poiché raccontano i cronisti vi era stata in quell’anno una grave carestia che ne aveva influenzato negativamente la produzione. Federico in quell’occasione, in nome di Carlo (che rappresentava con il titolo di “luogotenente generale”) non solo non lo abbassò, ma lo portò a 50 soldi la corba. Aveva allora toccato la pancia del suo popolo, l’unico che non riusciva a controllare. Perché alzare il prezzo del grano? Perché la famiglia Manfredi era proprietaria di ben 13 mulini nel faentino e nei paesi direttamente controllati. Alzare il prezzo significava, quindi, maggiori guadagni.

Questo evento ebbe però un effetto inaspettato, perché la città, il 15 novembre 1477, si ribellò alle vessazioni di Federico. A nulla valsero i tentativi anche della moglie di Carlo, Costanza, per placare la folla: l’alto prelato, rifugiatosi nella rocca, uscì anche da questa e scappò protetto a Lugo. Anche Carlo arretrò in Rocca, mentre da porta Montanara entrava Galeotto. Il cronista Novacula racconta dell’incontro, faccia a faccia, tra Carlo e Galeotto, avvenuto presso la Rocca. E Galeotto così si rivolgeva al proprio fratello:

Carisime mio fratelle, l’è stato al to popule che ce m’a menato per li vostre gram disordine che ti e Fedrico i avite fate continuvamenti: ma uno ricorde te voie dare, che in queste loco non sone venute per volerete fare male alcune, ance più preste sono venute per non volere più andare stentande per lo monde. Sichè, care fratelle, atende pure a guarire; siande tu prime de natività a ti toca el dominio, eciam ancora per esere inovate da Paule 2 pontifice; e per hogne rasone a ti toca dita signoria.

La vittoria di Galetto Manfredi

Dopo che pure i rinforzi inviati in soccorso a Carlo si fermarono a Meldola, Carlo dovette arrendersi e lasciare la città al fratello Galeotto.

Questo evento fa allora capire quanto, nel medioevo, era forte il potere del popolo. E’ uno di quelli eventi che si legano nel lungo novero delle rivolte popolari, la cui espressione più famosa è senz’altro il tumulto dei Ciompi (1378). Si potrebbe dunque ragionare circa le analogie tra quell’evento, di oltre un secolo prima, e questa rivolta “del pane” faentina.

L’aspetto allora rilevante e non secondario è comprendere l’importanza che il popolo ha nella vicenda politica dell’epoca, e ciò vale come monito e insegnamento anche per i nostri tempi.

Mattia Randi

Immagine di copertina: Tumulto dei Ciompi