La città di Faenza è notissima, oltre che per la sua produzione ceramica, anche per l’alto numero di edifici neoclassici. In ogni corso si affacciano case private con timpani misurati, forme calibrate, leggere e lontane da ogni orpello barocco. Ciò è il frutto di una grossa spinta edilizia che si ebbe nel periodo compreso tra la fine del Settecento e l’Ottocento. Con questi interventi, la vecchia città medievale venne in parte smantellata: il caso più significativo è quello della rocca presso Porta Imolese, la quale, per volontà del vescovo Cantoni, venne trasformata nel 1753 nell’ospedale cittadino.
Che fine ha fatto la gloria della città medievale, che diede lustro ai Manfredi e che viene rievocata ogni anno in occasione del Palio? È stata anch’essa spazzata via nel corso dei lavori settecenteschi come la rocca?
Intraprendiamo allora un viaggio volto a riscoprire le tracce urbanistiche e architettoniche lasciate intatte ed uscite dalla volontà della Signoria faentina. Vedremo allora come un cittadino faentino dell’epoca avrebbe potuto osservare la propria città e come si presenta invece oggi. Sarà come usare una macchina del tempo e quindi non resta che dirci “buon viaggio!”

San Girolamo dell’Osservanza

Donatello, San Girolamo, Faenza, Pinacoteca comunale.

Tra le cento opere portate nel 2015 all’Expò di Milano, Faenza era rappresentata da un statuetta di 141 centimetri d’altezza in legno policromo raffigurante San Girolamo penitente nel deserto. L’opera, attribuita dallo stesso Vasari a Donatello, era destinata ad un luogo preciso: la chiesa, appunto, di San Girolamo in Faenza. Il manufatto era il risultato di una importante committenza, attribuita al signore di Faenza Astorgio II, che voleva omaggiare il santo a cui era intitolata la chiesa dove si fece seppellire (1468).
Il primo luogo di questo ipotetico viaggio in una Faenza “manfreda” parte da qui, fuori le mura.
Dove oggi c’è la chiesa di San Girolamo dell’Osservanza sorgeva – probabilmente dal XII secolo – un antico monastero, abbandonato perché fatto oggetto di scorribande durante alcune azioni militari contro la città. Rimasto inutilizzato, il luogo di culto venne allora preso sotto la tutela dei Manfredi, i quali chiesero al papa Eugenio IV di concedere questa chiesa ai frati francescani. I signori di Faenza, come molte altre signorie, avevano un discreto interesse verso gli ordini mendicati: sappiamo infatti che proprio i seguaci di san Francesco godevano di una fiducia tale che a loro era affidato lo “scrigno del comune di Faenza, che era sopra la sacrestia di San Francesco”.

Con una solenne cerimonia, nel giugno del 1444 venne insediata a Faenza una famiglia di minori osservanti, i quali presero possesso della chiesa rinominata col titolo di san Girolamo. In questo edificio sono due i principali interventi voluti dai Manfredi. Il primo, come si è detto, è la sepoltura di Astorgio II e di sua moglie, Giovanna da Cunio. Come oggi, il visitatore medievale, entrato nella chiesa, avrebbe trovato la lapide sotto ai piedi della porta principale. Oggi la lastra è stata levata dal pavimento e murata: non ci dice più nulla, perché le tracce sono sbiadite dal continuo calpestio, mentre al suo posto è stata messa una nuova lapide in marmo con caratteri moderni.

Il secondo intervento invece fu portato dal vescovo Federico, l’odiato figlio di Astorgio II: va detto che la chiesa attuale è diversa da come si sarebbe presentata ad un visitatore del medioevo. A descrivere il suo originale stato restano dei disegni di Romolo Liverani oggi conservati presso la Pinacoteca Comunale ed una mappa, ritrovata a Bologna nel 1984. In origine infatti la chiesa aveva sei cappelle più la cappella maggiore che fungeva da coro: oggi invece, una cappella è divenuta ufficio del custode, mentre un’altra è stata usata come ingresso alla camera mortuaria. Non sappiamo bene dove si trovassero in origine, ma oggi la cappella del Santissimo Sacramento presenta tre elementi in pietra serena, posti nell’arco che separa le due cappelle in epoca successiva. A sinistra si vede un uccello che tenta di spiccare il volo, ma è vincolato ad una colonna; a destra un altro volatile tiene tra gli artigli una tartaruga. In ambedue i medaglioni (di circa 80 cm di diametro) la seconda fascia della cornice racchiude la scritta “Federico Manfredi Vescovo di Faenza pose”. Il lastrone centrale invece è composto di due parti: la parte superiore racchiude un dromedario sarcinato (cioè col capo nascosto, in questo caso, da un elmo a forma di montone – uno dei simboli del vescovo), mentre la parte inferiore contiene la scritta dedicatoria della cappella.

In entrambi i medaglioni di San Girolamo i cartigli sono stati probabilmente ridipinti, così come gli uccelli che hanno assunto la coloritura di una colomba e di un’aquila: anche i cartigli probabilmente furono manipolati nei lavori del XIX secolo. Oggi il primo animale riporta il motto “ai puri di cuore” (rectis corde, in latino), il secondo invece “l’intelligenza supera la forza” (ingenius superat vires). Questi tre elementi sarebbero stati messi in relazione dal visitatore medievale con un’altra opera federiciana, forse la più famosa e grandiosa: tre medaglioni questa volta maiolicati dai Della Robbia, infatti, erano pronti per essere innalzati nelle cappelle del Duomo di Faenza.

La Cattedrale di San Pietro

La cattedrale di San Pietro di Faenza ha sempre affascinato gli studiosi di storia e di arte. La struttura già fa intuire – e faceva intuire al visitatore medievale – la volontà del committente: la razionale geometria delle forme, entro figure inscrivibili sia nella facciata che nella pianta dell’edificio, il ritmo costante ed uguale che dona armonia è riscontrabile solamente nella culla dell’arte rinascimentale, Firenze. Proprio dal capoluogo toscano veniva infatti il primo architetto, già allievo e continuatore di Brunelleschi, Giuliano da Maiano, alle cui dipendenze lavorò il fratello per realizzare la cappella di San Savino (a sinistra dell’altar maggiore) e del maestro Mariotto, e successivamente sostituito da Lapo di Pagno di Lapo Portigiani.

La vicenda costruttiva è assai lunga e tormentata: iniziato il transetto nel 1474, dopo la cacciata di Federico nel 1477 la realizzazione è portata avanti dal terzo fratello, Galeotto, che terminò l’abside ed una parte delle cappelle, ma poi, complici le travagliate vicende che seguirono la fine della signoria, i lavori furono interrotti per essere ripresi solo nel 1507, con la costruzione dell’ingresso e della facciata nel 1526, quest’ultima lasciata in pietra viva, pronta ad accogliere il marmo di copertura.

La cosa più singolare è che ancora oggi possiamo leggere la fase realizzativa – come lo poteva fare il nostro visitatore medievale – attraverso i tondi maiolicati o in pietra affrescata presenti nelle singole volte. Si passa infatti dalle insegne federiciane sulle parti iniziali, a quelle di Galeotto con la sua palma nella terza volta della navata centrale venendo dall’ingresso, a quello della famiglia Utili nella seconda volta, infine, nella volta d’ingresso, la municipalità di Faenza assume il ruolo di ultimo committente e si fa ricordare con un tondo con lo stemma municipale del leone rampante.

Il nuovo Duomo e la sua lunga fabbrica furono il risultato di una spinta urbanistica che coinvolse Federico e, di più, il fratello Carlo II, signore della città. Furono infatti numerosi gli interventi in tutta la città, tra cui l’abbattimento di numerosi porticati in legno che addobbavano le vie faentine. Resta consegnato alla città un edificio uscito sia dalla necessità – il vecchio Duomo era in rovina – sia dalla volontà del vescovo Federico, della cui cupidigia e sete di ricchezza i cronisti raccontano, ma che comunque non ha intaccato la bellezza di un’opera tra le più significative dell’epoca.

E quando i Rioni entrano per omaggiare la Madonna delle Grazie, patrona della città, in realtà è un po’ come se tornassero nella loro casa: non c’è cornice più autentica del Duomo di San Pietro per le manifestazioni della giostra del Palio del Niballo…

(Continua)

Mattia Randi